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Un picaro nella Russia di Nicola I:
Le anime morte di N.V. Gogol’.

Nicoletta Marcialis

 

Ringrazio i colleghi dell’onore che mi hanno fatto invitandomi a tenere la lezione inaugurale dell’anno accademico del nostro dottorato. Spero di riuscire a interessare anche i non slavisti all’argomento che ho scelto di trattare, ossia Nikolaj Vasil’evič Gogol’, il grande scrittore russo della cui nascita festeggiamo quest’anno il bicentenario, e la sua opera più famosa, le "Anime Morte", che fu composta per la massima parte a Roma dove Gogol visse con brevi intervalli per quasi dieci anni tra il 1836 e il 1848.

Come tutti i capolavori, le "Anime Morte" è un’opera straordinariamente complessa su cui fiumi di inchiostro sono stati versati. Oggi io voglio analizzarla con voi da un particolare punto di vista, ossia quello che mette in luce il rapporto di questa opera con la tradizione "picaresca" intesa nel senso ampio del termine.

Qui sono necessari due chiarimenti di ordine metodologico:

  1. Il primo riguarda i confini spazio-temporali della picaresca, che notoriamente nasce in Spagna a metà cinquecento con "Lazarillo de Tormes" (1554) e si fa generalmente concludere con la pubblicazione di "La vida y hechos de Estebanillo González, hombre de buen humor, compuesta por él mismo".

  2. Il secondo riguarda il dibattito sulla opportunità di una definizione del "genere picaresco" che si basi esclusivamente sulla tematica e non su tratti formali e strutturali: in realtà, se accettiamo per esempio che la figura del picaro sia legata a quella del trickster del folclore, dovremmo definire picaresca metà della letteratura universale e il termine stesso perderebbe qualsiasi utilità.

Nella alternativa dunque tra un uso stretto del termine, per cui già il "Gil Blas" di Lesage non potrebbe a ragione definirsi un romanzo picaresco, e l’uso ampio del termine, per cui anche "Le dodici sedie di Ilf’ e Petrov può a buon diritto essere definito un "romanzo picaresco" (in russo "plutovskoj roman", dove "plut" è il furfante) nella mia lezione di oggi io adotterò la definizione di "tardo-picaresco" per riferirmi a opere letterarie che non appartengono (per lingua, per cultura, per cronologia) al secolo d’oro della picaresca spagnola, ma che vi fanno più o meno consapevole riferimento, riprendendone largamente procedimenti tipici, e ciò a prescindere dalla presenza di nuove finalità satiriche o didattiche. Questi procedimenti tipici sono:

Il punto di vista: la narrazione è condotta in prima persona dal picaro-narratore. A volte il picaro-protagonista e il picaro-narratore, che descrive retrospettivamente le proprie avventure dalla nascita alla maturità, incarnano due visioni del mondo differenti.

La situazione dialogica: il picaro si rivolge in genere direttamente al lettore coinvolgendolo cone ascoltatore in una sorta di racconto-confessione.

L’eroe: il protagonista è una persona di bassa estrazione sociale o comunque poverissimo, un marginale, generalmente nato da genitori ignoti e/o criminali. Abbandonato a sé stesso in un mondo ostile, è costretto per sopravvivere a compiere azioni riprovevoli che non gli procurano per altro alcun imbarazzo.

L’intreccio: gli episodi si susseguono in modo meccanico, come se fossero infilzati su uno spiedo. Un primo evento sfortunato dà l’avvio a una serie di peripezie che possono essere anche poco motivate. Numerose novelle inserite interrompono la narrazione.

Il cronotopo: il cronotopo è quello della strada, sulla strada e in locande e sempre per caso avvengono tutti gli incontri significativi del protagonista (continuo cambio di padroni, scenari spaziali e ambiente sociale).

Definisco quindi "tardo-picareschi" (potremmo forse anche dire "neo-picareschi" o "post-picareschi") tutti quei romanzi che non essendo picareschi nel senso proprio del termine utilizzino gli elementi su elencati con valore modellizzante (non basta che il protagonista sia un orfano e che viva nei bassifondi: per esempio Oliver Twist è un bravo bambino senza ombra di cinismo, cui rubare ripugna. Non è lui a raccontare la sua storia. La vicenda si svolge tutta nel ventre di Londra).

Se il vero picaro era una figura caratteristica della Spagna degli Austria, un lazzarone, un emarginato, un perdente, cui il crollo del vecchio mondo offre solo guai, fame e disgrazie, il "neo-picaro" rappresenta un nuovo tipo umano, un "picaro" vincente, che dalla mobilità sociale della borghesia mercantile in espansione, mobilità totalmente sconosciuta alla Spagna di Filippo IV, trae occasione di arrampicata sociale. Se il vero picaro si sistema nel migliore dei casi in una cuccia poco onorevole ma calda (è il caso di Lazarillo), mentre nel peggiore scende sempre più in basso, senza alcuna speranza di riscatto (Pablo di Quevedo), o ancora si pente e si converte come Guzman (diapositive 1 e 2); anche il tedesco Simplicius sceglie di abbandonare il mondo per il monastero), nei romanzi settecenteschi "tardo-picareschi" l’ottimismo trionfa, l’happy end è obbligatorio, e consiste nel raggiungimento del benessere e del successo sociale da parte dell’eroe che si ravvede e viene accolto nella buona società.

Nella Russia settecentesca, che vive eroicamente il suo sforzo di trasformarsi in una nazione moderna ed europea, questo modello intriso di fede illuminista nella forza della ragione ha immediato successo. La palma del best seller spetta indubbiamente a Lesage: numerosissime, come del resto in tutta l’Europa, sono le traduzioni e le riscritture che si succedono tra Mosca e Pietroburgo, talché possiamo dire che il romanzo russo è almeno in parte figlio di Gil Blas. Non dimentichiamo che sul romanzo pesavano nel Settecento gravissimi pregiudizi (lettura plebea, di serie b, perdita di tempo, corruzione dei costumi e soprattutto delle donne, nessuna utilità morale, ecc. ecc.) per cui il romanzo russo aveva bisogno, per sbloccarsi, di mallevadori autorevoli. Tali sono stati Walter Scott e Lesage. Tra l’altro, i due nomi sono legati: il giudizio più positivo su Lesage è proprio quello datone da Walter Scott.

Allora, vediamo in che senso le "Anime Morte" si possono collegare alla tradizione tardo-picaresca.

  1. la memoria del genere. Come afferma Bachtin, le tradizioni culturali e letterarie (comprese quelle più antiche, si conservano e vivono non nella memoria soggettiva individuale del singolo e non in una «psiche» collettiva, ma nelle forme oggettive della cultura stessa (comprese le forme linguistiche), e, in questo senso, esse sono intersoggettive e interindividuali (quindi, anche sociali); di qui giungono nelle opere letterarie, a volte evitando quasi del tutto la memoria individuale soggettiva dei creatori. In altre parole, ogni opera letteraria porta in sé, nel proprio DNA, la memoria genetica delle creazioni letterarie nel cui solco essa va a inserirsi.

  2. il contesto letterario. Come ho già detto, la tradizione che fa capo al "Gil Blas" di Lesage aveva conosciuto in Russia una fortuna straordinaria, e costituisce una componente fondamentale del panorama letterario a disposizione degli scrittori russi del periodo. Gogol’ non può non assumere una qualche posizione nei confronti di questa tradizione, un atteggiamento che può anche essere quello del distacco e della polemica.

  3. la recezione, ovvero l’orizzonte di aspettativa dei lettori, nonché il modo in cui l’opera viene letta al suo apparire. Agli occhi dei contemporanei le "Le avventure di Čičikov, ovvero le Anime Morte" si inseriva naturalmente in un preciso filone, quello delle Avventure dei vari Gil Blas e Moll Flanders russi ("La cuoca avvenente, ovvero le Avventure di una donna dissoluta" di Michail Čulkov, "Un Gil Blas russo, ovvero le avventure del principe Gavrila Simonovič Čistjakov" di Vasilij Narežnyj, "Un Gil Blas russo, ovvero le Avventure di Ivan Vyžigin" di Faddej Bulgarin eccetera). A prova di ciò ricordo che il titolo "Le avventure di Čičikov, ovvero le anime morte" (e non solo "Anime morte" come voleva Gogol’) era stato inventato dal censore, che aveva dunque recepito l’opera come picaresca, e orientava in tal modo la altrui recezione dell’opera verso il genere picaresco.

Nel 1835 Gogol’ ha ventisei anni ed è uno scrittore affermato. I contemporanei lo stimano, apprezzano la sua capacità descrittiva, che fa dire a un famoso critico "Gogol’ non scrive con la penna, dipinge con un pennello". A Pietroburgo in quegli anni la sua natia Ucraina, come diciamo oggi, o Piccola Russia come la chiamavano allora, è di moda, funge da sfondo e da ambientazione per una delle due facce del romanticismo, quello dell’idillio. Se il Caucaso (Bestužev-Marlinskij, Puškin, più tardi Lermontov e Tolstoj) rappresenta la vita selvaggia, le passioni sfrenate, lo stato di natura, l’esotismo, l’ardimento in battaglia, la morte in agguato, i "racconti piccolorussi" (Somov, Narežnyj, Pogorelskij, Gogol’), con elementi di rustica comicità popolare e una forma di pietas per l’infanzia del popolo slavo soddisfano la passione romantica per le antichità patrie e il Volksgeist (la Piccola Russia avrebbe conservato meglio della Grande Russia il tesoro di folclore e tradizioni popolari.).

Ecco cosa scrive di lui Puškin nel 1836, in occasione della ristampa delle "Veglie alla fattoria di Dikan’ka":

I nostri lettori non hanno certo dimenticato l’impressione che ricavammo dalla pubblicazione delle "Veglie presso la fattoria di Dikan’ka": la nostra gioia al cospetto di questa fresca descrizione di un popolo che canta e che danza, al cospetto di queste vivide descrizioni della natura meridionale, di questa allegria ingenua e insieme maliziosa. Con quale stupore accogliemmo un libro russo che ci faceva ridere, noi che non ridevamo più dai tempi di Fonvizin! Come fummo grati al giovane autore, perdonandogli di buon grado qualche ruvidezza e incertezza stilistica, la scarsa verosimiglianza e l’incoerenza di alcuni racconti, che altri critici hanno voluto sottolineare.

L’Autore ha ben giustificato la nostra magnanimità. Da quel momento non ha fatto che crescere e maturare. Ha dato alle stampe gli "Arabeschi", che contiene la più complessa e completa delle sue opere, la "Prospettiva Nevskij". Poi "Mirgorod", dove abbiamo divorato avidamente i suoi "Proprietari di vecchio stampo", questo idillio tenero e giocoso, che ci costringe a ridere tra le lacrime, tristi e inteneriti, e "Taras Bul’ba", il cui incipit è degno di Walter Scott.

Ma il signor Gogol’ non si ferma. Speriamo e contiamo di poter ancora parlare spesso di lui nella nostra rivista (1).

(1). Presto sarà rappresentata qui a teatro la sua commedia "Il Revisore" (nota di Puškin).

È questo Gogol’, così versatile e ricco di talento, a mettere mano al progetto delle Anime Morte. Continuerà a lavorarci sino alla morte, nel 1852. E come si sa, a una morte così precoce (aveva 43 anni) il lavoro sulle Anime Morte non è estranea.

Il progetto iniziale è semplice: il protagonista Pavel Ivanovič Čičikov, accompagnato dal servo Petruška e dal cocchiere Selifan viaggia per la Russia, incontrando vari personaggi, "tipi" buffi, portatori ognuno di un difetto o vizio particolare, così da infilzare come su uno spiedo una serie di bozzetti, di episodi comici. Gogol’ ci mette mano senza un piano definito: come scriverà più tardi, "Pensavo soltanto che il progetto alla cui realizzazione si adoperava Čičikov faceva ridere, e che mi avrebbe portato lui stesso a imbattermi in personaggi e caratteri". Il progetto in questione e quello cui si riferisce direttamente il titolo e che governa l’intreccio: Čičikov, uno spiantato imbroglione in cerca di fortuna, decide di comprare per due soldi contadini morti (le famose anime morte) e ipotecarli al banco dei pegni, per poi acquistare con quel denaro contadini vivi e divenire finalmente uno stimato proprietario terriero. La faccenda era resa possibile dal fatto che la registrazione della morte dei contadini, servi della gleba, avveniva in occasione di censimenti periodici non molto frequenti (gli intervalli tra l’uno e l’altro potevano arrivare a venti anni). Nel periodo che intercorreva tra la morte e il censimento il contadino figurava come ancora vivo e il proprietario pagava le tasse, per cui poteva avere interesse a liberarsene. Scherzetti del genere non erano rari, pare che qualcosa del genere avesse escogitato lo zio di Gogol’.

Già nell’ottobre del 1835 in una lettera a Puškin, Gogol’ si riferisce alla sua creatura come a un "lunghissimo romanzo" ("Ho cominciato a scrivere le Anime morte. Il soggetto si è sviluppato a formare un romanzo lunghissimo e, direi, davvero divertente"), romanzo che evidentemente si ispirava alla tradizione del romanzo satirico di costume di derivazione tardo-picaresca.

Il protagonista Pavel Ivanovič Čičikov, è una specie di Gil Blas russo. Quando il padre lo accompagna in città, per iscriverlo a scuola, qualsiasi radice si spezza: il nostro protagonista non ha e non avrà più casa, né famiglia, né alcuna altra forma di appartenenza.

Lasciato solo a se stesso, con il solo viatico paterno di qualche squallido consiglio (parodia del topos degli ammaestramenti dei genitori al figlio che lascia il tetto paterno),

Nel dargli l’addio il genitore non aveva versato una lacrima: gli aveva consegnato cinquanta centesimi di rame per le sue piccole spese e, cosa ben più importante, un saggio viatico: "Bada, Pavluša, studia, non fare lo scemo, non oziare, e soprattutto sforzati di compiacere i maestri e i superiori. Puoi riuscire male negli studi e non aver alcun talento, ma se saprai compiacere il tuo superiore farai strada e supererai tutti. Lascia perdere i compagni, che non possono insegnarti niente di buono; se proprio devi, frequenta quelli ricchi, che all’occorrenza potranno esserti utili. Non offrire mai niente, non pagare da bere a nessuno, fai in modo invece che siano gli altri a offrire a te, e soprattutto lesina sul soldo: è questa la cosa principale. Il compagno, l’amico ti mena per il naso, e nel bisogno è il primo a tradirti, il soldo non ti tradisce mai, di qualunque cosa tu abbia bisogno. Coi soldi puoi fare tutto, coi soldi puoi arrivare dove vuoi!" Impartito il suo ammaestramento, il padre si era congedato dal figlio e se ne era tornato a casa con la sua gazza; non l’avrebbe mai più rivisto, ma quelle parole e quei concetti gli si radicarono profondamente nel cuore.

Čičikov è costretto ad aguzzare l’ingegno, spinto da un solo desiderio: diventare ricco e rispettato, frequentare l’alta società, vivere nel lusso. Soprattutto, gli preme garantirsi una posizione sicura, un decoro solido e senza macchia, che gli permetta, come dice lui, di guardare in faccia il prossimo, di trasmettere un nome onorato ai figli. Aspira insomma a una carriera alla Gil Blas.

Come Gil Blas, anche Čičikov non è cattivo, non è brutto, è anzi straordinariamente piacevole e ben educato. Ovunque si fa amare e suscita simpatia. La sua natura pieghevole gli permette di adattarsi perfettamente a ogni circostanza, senza che ciò gli provochi alcun conflitto con una coscienza che non è particolarmente vigile. Come molti nostri contemporanei, Čičikov è convinto che certi comportamenti, come il falso in bilancio, la bancarotta fraudolenta, l’esportazione di capitali all’estero, l’evasione fiscale e simili non siano reati, e quasi neanche vere truffe. Né si sente un imbroglione a farsi passare per un altro, a simulare, a corteggiare per interesse la figlia del capoufficio per poi sparire da un giorno all’altro quando ottiene la promozione. Come Gil Blas, Čičikov è in balia del caso. Più e più volte nella vita arriva a un passo dal successo, e viene risospinto in basso da circostanze impreviste, imprevedibili e non necessarie.

Se dunque Čičikov è un picaro, picaresca è la struttura stessa del viaggio, la galleria di personaggi, proprietari, burocrati, signore, rappresentati ognuno in un quadro a se stante. Čičikov entra nel romanzo in carrozza (notate la sua carrozza nel margine alto della copertina disegnata da Gogol’), e sulla strada si conclude la narrazione, nel famosissimo brano in cui vediamo Selifan, il fedele cocchiere, lanciare al galoppo la trojka in una terrificante corsa, metafora del destino della Russia.

È interessante il modo in cui veniamo a conoscenza della biografia di Čičikov: giocando con le tradizioni del genere, che volevano che la narrazione fosse condotta in prima persona e che seguisse rigorosamente un ordine cronologico, Gogol’ non ci dice una parola del suo personaggio sino alla fine del romanzo, quando ormai Čičikov sta scappando dalla città di N., dove sul suo conto circolano le voci più fantasiose. Siamo all’ultimo capitolo, l’XI. Čičikov dorme, e l’autore ne approfitta per sussurrare all’orecchio del lettore, quasi un pettegolezzo, le informazioni che Čičikov aveva tenuto nascosto così accuratamente a tutto gli abitanti di N., notizie sulla sua identità e biografia:

Infine anche la strada cessò di interessarlo, chiuse gli occhi e poggiò la testa al cuscino. L’autore deve ammettere di esserne lieto, perché può così parlare un po’ del suo eroe; sinora, come il lettore ha potuto constatare, glielo ha sempre impedito qualcosa, Nozdrev, il ballo, le signore, i pettegolezzi cittadini, migliaia di inezie che sembrano tali quando le leggi nei libri, mentre nella vita sono ritenute di fondamentale importanza. Adesso però accantoniamo tutto e mettiamoci all’opera.

Sembra quasi che dica: adesso finalmente posso scrivere il primo capitolo come si deve …

Questi dunque sono gli elementi nel romanzo che positivamente possiamo considerare "tardo-picareschi", collegandoli tanto a una scelta precisa di Gogol’, quanto a quella che abbiamo definito la memoria del genere, la forza della tradizione letteraria.

Ma ve ne sono altri, meno evidenti alla lettura, che si sovrappongono a questi: una polemica nascosta, una presa di distanza da altri romanzi "tardo-picareschi" russi.

Due erano stati in particolare i rifacimenti russi di Gil Blas: il romanzo di Vasilij Narežnyj "Un Gil Blas russo, ovvero le avventure del principe Gavrila Simonovič Čistjakov", di cui una prima parte era uscita nel 1814 per essere immediatamente ritirata dalla circolazione, mentre il resto della pubblicazione era stato bloccato dalla censura, e il romanzo di Faddej Bulgarin "Un Gil Blas russo, ovvero le Avventure di Ivan Vyžigin", pubblicato nel 1829 e subito divenuto un bestseller. Il romanzo di Vasilij Narežnyj "Un Gil Blas russo, ovvero le avventure del principe Gavrila Simonovič Čistjakov", si proponeva già dalla prefazione di "raffigurare i costumi dei vari ceti" in un vasto affresco della realtà russa. Nella complessa architettura del romanzo la voce del narratore si intreccia a quella di altri personaggi, tra cui suo figlio, che sarà però riconosciuto come tale solo a metà dell’opera, e con novelle inserite e digressioni di varia natura. Narežnyj non importa meccanicamente il modello di Lesage, ma lo adatta realmente alla situazione russa, facendo quasi rivivere i toni sconsolati della picaresca spagnola, in virtù di una sensibilità barocca che non sa apprezzare i valori occidentali dell’illuminismo settecentesco (e borghese). La cifra è quella della satira più violenta di corruzione, ignoranza, vanità, disonestà di tutto e di tutti (l’unico personaggio davvero positivo è un povero oste ebreo, che muore per le persecuzioni dei suoi compaesani ortodossi), per cui non stupisce che il romanzo sia stato bloccato dalla censura sino al 1938!

Di tutt’altra pasta il romanzo di Faddej Bulgarin "Ivan Vyžigin, romanzo satirico di costume" (inizialmente il romanzo si intitolava "Ivan Vyžigin. Un Gil Blas russo"), il primo best seller della storia russa. La prima edizione, del 1829, andò esaurita in soli sette giorni, la seconda uscì lo stesso anno e fu presto esaurita anch’essa (si parla di settemila copie!). Nel 1832 il romanzo era stato già tradotto in francese, polacco, tedesco, svedese, italiano, inglese, olandese e spagnolo.

Ivan racconta in rima persona la sua vita: orfano, allevato per carità nella poco caritatevole famiglia di un proprietario terriero bielorusso, cresce come una bestiolina, quando il caso lo porta via da lì (il caso è la figlia del padrone che scappa con un ufficiale e lo porta via con sé) dando inizio a una serie inverosimile di avventure che spaziano dalla Russia alla Chirghisia. Alla fine Ivan, che mostrava del resto nel tratto inequivocabili segni di innata nobiltà, scopre e riesce a dimostrare di essere figlio di un principe, riceve una immensa fortuna, si sposa e inizia una vita ricca e felice.

La meccanicità del procedimento, la superficialità della russificazione di caratteri e situazioni, il facile ottimismo, il servilismo, la scoperta adesione all’ideologia ufficiale della Russia di Nicola I, basta sui sacri principi della triade autocrate, chiesa ortodossa e popolo russo, provocano il disprezzo degli scrittori più sensibili e fini.

La polemica contro Bulgarin costituisce una costante nella pubblicistica russa degli anni ’30, e vede schierati in prima linea Puškin e la sua cerchia. Al di là del contrasto ideologico (Bulgarin era un informatore della polizia) lo si accusa di essere sentenzioso, banale e privo di gusto letterario. Ebbene proprio qui, nel vivo della polemica tra il partito aristocratico raccolto intorno a Puškin e alla sua rivista "Il contemporaneo", da una parte, e un nuovo ceto di giornalisti, editori, pubblicisti e scrittori borghesi, di cui Bulgarin rappresenta la figura leader, si va a innestare la composizione del romanzo di Gogol’: forse il suggerimento di usare il suo talento per smascherare la trivialità compiaciuta, il filisteismo meschino e soddisfatto che in quegli anni si associavano al nome di Bulgarin e al suo romanzo gli sarebbe venuto proprio dal poeta, che ne apprezzava il talento satirico:

Di me hanno parlato molto, analizzando questo o quel mio tratto, ma la sostanza non è stata ancora colta. Il solo Puškin l’ha capita. Mi diceva sempre che nessun altro scrittore aveva il mio stesso talento nel mettere in luce la volgarità della vita, che nessun altro sapeva delineare la trivialità dell’uomo triviale con tanta forza, riprenderla e metterla in primissimo piano, portandola sotto gli occhi di tutti, anche quelli cui altrimenti certe piccolezze sarebbero sfuggite […] ("Passi scelti dalla corrispondenza con amici", 1843)

Nel romanzo (Gogol’ lo chiama poema, ma di questo non voglio parlare), l’ironia e la satira si esercitano non tanto, come hanno voluto vedere i critici impegnati alla Belinskij, contro i mali sociali dell’epoca (servitù della gleba, corruzione eccetera) ma contro la volgarità della vita in tutte le sue manifestazioni, compreso naturalmente il cattivo gusto linguistico e letterario che spesso ne è espressione: viene messa alla berlina l’"esterofilia" russa (cfr. le due signore squisite che chiacchierano in francese nel IX capitolo), ma anche la lingua manierata dei salotti e la leziosaggine di tutti gli epigoni del sentimentalismo (cfr. l’episodio del ballo nel capitolo VIII). Gogol’ aborre un gusto letterario che aveva nelle donne il proprio interlocutore privilegiato: leggiamo il famoso passo del cap. VIII sulla buona educazione delle signore della città di N. :

Le signore della città di N. erano tutte très présentables, come dicono oggi, e in questo senso le si poteva tranquillamente additare a esempio alle altre. Quanto a maniere, bon ton, capacità di rispettare l’etichetta e le convenienze sino alle sfumature più sottili, e soprattutto di osservare la moda nei minimi dettagli, superavano addirittura le gran dame pietroburghesi e moscovite. Si vestivano con autentico buon gusto, attraversavano la città in carrozza scoperta, come voleva l’ultima moda, lacché in livrea e galloni dorati dondoloni sulla predella posteriore.

[…] Nei costumi le signore della città di N. erano severe, traboccavano di nobile indignazione contro ogni vizio e ogni tentazione e fustigavano senza pietà la minima debolezza. Se poi tra loro accadeva qualcosa, per esempio quello che chiamano triangolo, era sempre di nascosto, cosicché niente ne potesse trapelare: la forma era sempre salva, e il marito stesso veniva addestrato affinché se anche vedeva il triangolo, o ne sentiva parlare, rispondesse in modo laconico e ragionevole con il noto proverbio: a chi può interessare che la comare riceva il compare?

Occorre anche dire che le signore della città di N., simili in ciò a molte dame pietroburghesi, si distinguevano per la straordinaria prudenza e decoro di ogni parola e frase. Non dicevano mai: "mi sono soffiata il naso, ho sudato, ho sputato" ma solo "mi sono liberata il naso, ho fatto ricorso a un fazzoletto". Nessuna avrebbe mai pronunciato le parole: "questo piatto, o questo bicchiere, puzza". Non era lecita nemmeno la più delicata allusione al problema; si diceva invece "questo bicchiere non si comporta bene" o qualcosa del genere. Per nobilitare ancor di più la lingua russa, quasi metà del suo lessico era esclusa dalla conversazione, cosicché si doveva ricorrere massicciamente al francese; in francese era tutto diverso: lì ci si potevano permettere espressioni ben più dure di quelle succitate.

Ebbene: il passo sulle signore che non direbbero mai "questo piatto, o questo bicchiere, puzza" contiene un chiaro riferimento a Bulgarin, che in una recensione al "Revisore" (uscita nel 1836) aveva invitato gli amici dell’autore, cioè di Gogol’, a consigliarlo di evitare troppo cinismo linguistico, giacché ormai, scrive Bulgarin, neanche un domestico direbbe più "la minestra puzza", oppure "il tè ha odore di pesce", ma direbbe semmai "ha un brutto odore, ha odore di pesce".

Non pensiate che si trattasse di polemiche tra pedanti: era in gioco il futuro della letteratura russa, si combatteva per l’egemonia sulla cultura. Ecco cosa scrive il principe Vjazemskij in difesa di Gogol’: "Si sa che gli aristocratici sono molto più liberi nell’esprimersi: leziosaggine, affettazione, ipocrisia, eufemismi, giri di parole sono propri di chi non facendo parte dell’alta società vuole imitarne le maniere". Insomma, è l’eterna guerra contro la povera madame Verdurin!

Direttamente ispirate a pagine di Bulgarin sono numerose situazioni del romanzo: per esempio il primo incontro di Čičikov, quello con il proprietario terriero Manilov, è la parodia abbastanza scoperta di uno scritto di Bulgarin intitolato "Un incontro con Karamzin", pubblicato a metà degli anni ’30, mentre la situazione del "triangolo non scandaloso" praticato dalle signore di N. esiste tal quale proprio nell’"Ivan Vyžigin" di Bulgarin.

Mi avvio a concludere. Ho cercato di mettere in evidenza il legame che intercorre tra l’opera di Gogol’ e la tradizione tardo-picaresca in quella sua realizzazione russa che fu il romanzo satirico d’ambiente e di costume, legame positivo e legame negativo, di distacco e di superamento.

Possiamo dire che con Gogol’ il romanzo compie un ulteriore, importante passo verso la sua trasformazione in romanzo moderno. Il nuovo picaro che lo abita è il piccolo borghese compiaciuto di sé, privo di scrupoli, tutto teso a conquistare il benessere economico e con quello la rispettabilità e il decoro, in un mondo dove ormai tutto si compra e si vende:

[…] si sparse la voce che fosse niente meno che milionario. Gli abitanti della città si erano già affezionati a Čičikov di tutto cuore, come abbiamo visto nel primo capitolo: adesso il loro affetto si fece ancora più profondo. […]

Sino a quel momento le signore della città di N. non avevano parlato molto di Čičikov, pur riconoscendo appieno la grazia delle sue maniere; da quando però si era sparsa la voce che fosse milionario gli si erano scoperte nuove qualità. Non che le signore fossero interessate: colpa di tutto aveva la parola ‘milionario’, non il milionario in sé, ma proprio la parola, che racchiude in sé e nel proprio suono, oltre a un sacco di soldi, quel non-so-che di sicuro effetto sulle persone meschine, sulle persone così così e sulle persone per bene, cioè a dire su tutti. Il milionario ha il vantaggio di poter osservare la meschinità allo stato puro, disinteressata, scevra di qualunque calcolo: molti sanno benissimo che da lui non avranno niente e che non hanno diritto a niente, ciò non di meno gli staranno sempre tra i piedi, rideranno, si scappelleranno, si faranno invitare a forza al banchetto dove sanno che lui è presente. Non che le signore coltivassero questa tenera inclinazione alla meschinità: tuttavia in molti salotti si cominciò a dire a voce alta che certo, Čičikov non era una bellezza, ma era proprio come un uomo deve essere, che se fosse stato più grasso o più pienotto non sarebbe stato bene.

Come sappiamo, negli anni il piano dell’opera si fa più impegnativo, il viaggio assume un significato simbolico, sino a configurare il progetto di un trittico, una specie di Divina Commedia che descriva i vizi della società russa (nella prima parte, che corrisponderebbe all’Inferno), la dolorosa presa di coscienza della propria meschinità e i tentativi di emendarsi (nella seconda parte, che corrisponderebbe al Purgatorio), il trionfo del bene in una Russia popolata da una nuova umanità redenta (la terza parte, ossia il Paradiso). La redenzione di Čičikov doveva andare di pari passo con quella del suo autore, giacché Gogol’ pensava che la sua capacità di cogliere gli aspetti più meschini della realtà nascesse dal fatto di essere lui stesso colpevole di meschinità.

Lungi dall’abbandonarsi al suo talento, lo scrittore si tende allora nello sforzo angoscioso di una rigenerazione morale personale che gli permetta di usare il suo talento a fin di bene, di salvare la propria anima e di indicare alla Russia, con la forza di un profeta veterotestamentario, la via della salvezza. L’enormità di questa aspirazione è causa della impossibilità di comporre la seconda e la terza parte dell’opera, e in ultima analisi della sua stessa morte.

Questa tragicità, unita all’altissimo valore estetico dell’opera, hanno persuaso molti critici che accostare Gogol’ alla tradizione picaresca significasse quasi sminuirne la portata artistica e filosofica, e ha dunque finito per gettare ombra su questa sua matrice.

 

 


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